giovedì 7 marzo 2013

Scene da una laurea (2)

Sottotitolo: del Power Point per la discussione della tesi.
No, dai, parliamone.

Non conosco lo stato delle altre università del mondo, ma la mia è veramente tragica. Vi lascio qualche immagine a scopo esplicativo.
  • La biblioteca di facoltà (di una facoltà che, a occhio, conterrà più o meno un 2000 studenti) possiede un totale di n. 32 (trentadue) posti a sedere per studiare. No, non è uno scherzo, li ho contati uno per uno. Ed è aperta fino alle 17 solo tre giorni alla settimana, negli altri due se non te ne vai all'una ti chiudono dentro assieme ai tuoi libri e buonanotte.
  • Non abbiamo una mensa né una caffetteria, ed è vietato mangiare all'interno delle aule. Il nostro vecchio preside, passando una volta davanti ad una fila interminabile di studenti che sgranocchiavano tristemente il loro panino seduti sul muretto dell'aiuola, ha almeno avuto il buon senso di nascondere la faccia con aria vergognosa. Vi lascio immaginare le bestemmie durante i giorni di pioggia.
  • L'aula multimediale, dotata di ben 12 computer, apre alle 10 e chiude alle 16. Il famigerato sportello dello studente, invece, è aperto al pubblico per un totale di 16 ore alla settimana. Perché la voglia di lavorare ci attanaglia.
Corridoi dell'università all'ora di pranzo.
Però, quando si tratta di fare bella figura, la nostra facoltà non è seconda a nessuno. In particolare per quanto riguarda le sessioni di laurea, momento storico in cui i genitori di noi poveri disgraziati fanno capolino per la prima volta in università a vedere per cosa cavolo hanno speso tutti quei soldi.

Breve elenco della roba che ho dovuto scrivere/compilare e scarrozzare in giro per ottenere il diritto di laurearmi:
  • domanda di laurea (compilata on line, e poi portata a mano allo sportello: vedi post esplicativo)
  • questionario Almalaurea (come se servisse a qualcosa, ma vabbè)
  • marca da bollo
  • certificazioni su tirocini ed attività extracurriculari (qui servirebbe un post apposito, che vi risparmio perché facciamo notte)
  • modulo apposito per indicare il titolo della tesi, in italiano e in inglese
  • modulo per indicare le date in cui era disponibile il mio relatore
  • tesi (quasi me la dimenticavo...)
  • CD con la tesi
  • riassunto della tesi (o meglio, abstract), da mandare alla commissione di laurea
  • presentazione in Power Point per la discussione.
Ora, permettetemi un rapido excursus sull'abstract (wazz'ammerigan boy).
La mia tesi, ve lo anticipo, non è un granché. Fondamentalmente tratta di gente che morirà di qui a poco, ecco, per dirla in breve. Ciò nonostante, ci ho messo ben 7 mesi a raccogliere i dati necessari, più altri 5 per elaborarli e per scriverla: totale, un anno tondo tondo.
Quindi, il fatto che tu mi chieda un riassunto, con licenza parlando, mi sta enormemente sulle balle. Ci ho messo un anno di vita a completarla, per Giove. Se vuoi sapere di cosa parla, leggila. Non dico tutte e 68 le pagine, per l'amor di Dio, sai mai che ti caschi qualche diottria; ma almeno per la parte sullo studio potevi anche fare questo sforzo. Son 10 facciate. Portatele sul cesso dopo una cena a base di burrito e sfogliale, ci si mette niente, te l'assicuro.

Comunque.

La parte più figa è sicuramente quella del Power Point. Sì, perché siccome nella mia università siamo internescional, la discussione della tesi prevede che tu esponga una presentazione in ppt davanti a una folla di parenti dallo sguardo vacuo, mentre i membri della commissione se la dormono beatamente alle tue spalle.
Ora, devo avervelo accennato da qualche parte in queste confuse pagine, ma io ho un terrore patologico di parlare davanti a tanta gente. Non ci posso fare niente. Mi si secca la lingua, mi si attiva la sudorazione e mi trovo ad ansimare come Lassie, e ad avere più o meno lo stesso odore.
Oltretutto, la presentazione ha un limite di 10 minuti, oltre il quale non si può sforare. Un po' come quando si gioca a scacchi, se ci stai a pensare troppo a un certo punto risuona il *TINNNNG* del timer e sei eliminato. Il problema è: a quante slide corrispondono 10 minuti? E come faccio a farci stare dentro un anno di lavoro? Devo per forza glissare su alcuni punti, ma se poi viene fuori l'impressione di un lavoro raffazzonato? E se mi incanto, cosa estremamente probabile, e sforo il tempo massimo consentito?

Insomma, lo stress da laurea sta raggiungendo livelli epici. Oltretutto, dopo essere riuscita a mantenermi sana surante tutto l'inverno (con stratagemmi assurdi, tipo coprirmi precipitosamente la bocca e il naso con la manica ogni volta che un mio collega starnutiva, cosa che non ha assolutamente alimentato i sospetti di ritardo mentale che aleggiano sulla mia testa), qualcuno è finalmente riuscito ad attaccarmi il raffreddore.
Caro il mio sconosciuto, che non sei in grado di tenerti per te i tuoi maledettissimi germi: sinceramente, ti auguro le peggio cose. E le mie maledizioni di solito funzionano. L'ultima persona che me le ha fatte girare abbondantemente è caduta dal motorino, ha dato una capocciata sull'asfalto e l'hanno dovuta pure operare. Certo, non era il massimo della furbizia neanche prima, ma questo non c'entra.
Statt'accuort. Te lo dico col cuore.

giovedì 28 febbraio 2013

Tecnologia, portami via

***ATTENZIONE: post a medio contenuto di nerditudine***

Devo confessarvi un segreto: nella mia famiglia, siamo tutti un po' malati di tecnologia.

Non fraintendetemi, non siamo quel genere di persone che cambia il cellulare ogni sei mesi in base alle mode del momento, o che butta via palate di soldi in scemenze all'ultimo grido. Anche perché, a onor del vero, se ci comportassimo così ci verrebbe ben presto a mancare la materia prima.

Sta di fatto che la tecnologia ci piace, seppur con moderazione. Suppongo che la ragione principale sia da ricercarsi nell'abitudine: quando sono nata io, uno dei primi giocattoli con cui ho pasticciato è stato il vecchio Spectrum di mio padre (lacrimuccia di commozione... chiedo scusa), mentre mio fratello è nato e cresciuto già nell'epoca del 486. Ricordo ancora il primo cellulare di mio padre, grosso più o meno come un citofono ma non altrettanto funzionale, e i videogiochi con cui sono cresciuta, dal vecchio Arkanoid al terribile Prince of Persia (mai - dico mai - riuscita a superare il terzo livello. Già da piccola non è che fossi furba).

La nostra passione è cresciuta con noi, evolvendosi nel rituale di famiglia di raccogliersi tutti attorno al fortunato possessore di un nuovo oggettino tecnologico e di osservare il suo primo avvio in religioso silenzio. (Mi rendo conto di essere appena stata ingiusta: in realtà, tre quarti di famiglia hanno creato ed onorato questo rituale, in quanto mia madre si è sempre rifiutata anche solo di imparare a programmare il videoregistratore, ed ha vissuto felice sino ad oggi.)

Il mito della mia infanzia!
Avendo ricevuto questo genere di educazione, rimango sempre abbastanza spiazzata dal disinteresse di molti miei coetanei (molti più di adesso, comunque) nei confronti della tecnologia. Non che non riesca a conviverci, sia chiaro: per fare un esempio, la mia dolce metà è tanto interessata al modello del suo cellulare quanto io lo sono alla marca del mio apriscatole, eppure ciò non mi impedisce di amarlo. Non è proprio una situazione alla Romeo e Giulietta, ecco.
Tuttavia, esiste anche un rovescio della medaglia: la mia (seppur minima) esperienza con computer e cellulari (dove per "esperienza" si intende "essere in grado di aprire il vano delle batterie senza chiamare un artificiere") mi ha reso, e mi rende tuttora, il bersaglio di parenti con minore dimestichezza, specie se un po' attempati. Se dovessi elencare tutte le volte in cui sono stata precettata per cambiare la cartuccia alla stampante di mia nonna, o per esaudire le richieste più bislacche da parte di mia suocera, non mi basterebbe un anno.

Ho elaborato una teoria al riguardo, e cioè che la giovane età pare svolgere un effetto estremamente rassicurante sulle persone un po' attempate, almeno per quanto riguarda la modernità. Per alcune persone, "giovane" equivale automaticamente ad "onnipotente", e l'equazione è tanto più forte quanto più la persona è digiuna di tecnologia. Con risultati talvolta esilaranti: per esempio, mia nonna è convinta che il binomio cellulare/numero di telefono sia assolutamente inscindibile, e non ho ancora avuto il coraggio di introdurla al meraviglioso mondo del cambio della SIM.

Signore e signori, mia nonna.
Questa equazione pare conservarsi anche sul posto di lavoro. Oddio, non è che ci siano tutte queste occasioni di interagire con la tecnologia, per la verità... lavoro in ospedale, in fondo, mica al MIT. Tuttavia, i miei vecchietti sembrano avere qualche difficoltà a gestire oggetti più tecnologici di un telecomando, per cui ogni tanto succedono delle situazioni abbastanza divertenti.

La più frequente, come potete immaginare, è l'eterno dilemma del cellulare. Il cellulare non funziona mai. In realtà, mi chiedo persino perché i parenti dei miei vecchietti si ostinino ad appioppargli questi oggetti per loro chiaramente incomprensibili... in fondo, se ci si pensa un attimo, la primaria funzione di un cellulare è di contattare una persona in situazioni d'emergenza, e questo dovrebbe automaticamente escludere i nostri nonnetti, per due ottime ragioni: 1) perché se qualcuno può avere un'emergenza, a rigor di logica, sono loro; 2) perché le infermiere hanno il numero di telefono dei parenti pronto per qualsiasi evenienza, non è che ti lasciano crepare il nonno e lo scopri dopo una settimana; 3) perché il nonno sta lì, nel suo letto, e se vuoi dirgli qualcosa puoi anche alzare le chiappe e venirglielo a dire, invece che stressarlo col cellulare. Oh, mi sono sfogata.

Comunque.

La conversazione tipo è sempre la stessa:
"Signorina, mi può aiutare? Non mi va il cellulare!"
Tentato esame del cellulare, fallito perché la cara signora (di solito è una donna, non so perché) lo sta sventolando come una dannata, forse nel tentativo di smolecolarizzarlo.
"Cara, in che senso non va? Che cos'ha?"
"Non telefona!" Ma dai, pensavo avesse tentato di fuggire sulle sue gambe. "Non ha più la carica."
"Beh, se mi dà il caricabatterie cerco di attaccarglielo alla corrente..."
"Il che?"
"Il carica... il cavo, signora. Il cavo che si attacca alla corrente."
"Ah, ma quello non ce l'ho. Ce l'ho a casa." Tentiamo in wifi? "Ma non è la corrente, è la carica!"
Rapida riorganizzazione delle idee. "Vuol dire il credito? I soldi?"
"Sì, non ci sono più i soldi. E ora come faccio?"
"Ehm... può dirlo a sua figlia, o alla badante, che le facciano una ricarica... se gli dà i soldi..."
"Ah, no, io a quella soldi non gliene do. E se li do a lei?"
"Gliene sarei molto grata, signora, ma non credo che risolverebbe il problema col suo cellulare..."

Crisi 2.0. Sfruttare l'"effetto nonni" è l'unica maniera per sopravvivere, ormai.

domenica 17 febbraio 2013

Scene da una laurea (1)

Dopo lunga riflessione, sono giunta ad una conclusione epocale, che voglio condividere con voi: laurearsi, alla fin fine, è la parte più facile di una laurea. No, non ho preso una botta in testa. Adesso mi spiego.

La laurea in sé e per sé, a pensarci bene, non è poi questo gran dramma. A meno che non abbiate frequentato un'università per corrispondenza, infatti, alla laurea si arriva con le ossa irrobustite da lunghi anni di esami deliranti, safari di caccia al professore, nottate di studio e numerosi ricoveri in pronto soccorso per overdose di caffè. Paragonato a tutto questo, il semplice fatto di dover salire su una pedanina (o comunque si usi da voi) e dover recitare una presentazione di un lavoro - per una volta - fatto da voi ad un pubblico per la maggior parte addormentato è, in fin dei conti, una discreta passeggiata.

Quello che non è affatto una passeggiata, invece, è la preparazione a questo epico momento. Supponendo che siate abbastanza fortunati da non aver bisogno di piantare le tende sul pianerottolo del vostro relatore, per convincerlo finalmente della vostra esistenza, dovrete comunque temprare la vostra volontà di laurearvi nel bacino di una considerevole quantità di ostacoli, che mi sono permessa di dividere arbitrariamente in due categorie.

Il primo gruppo è quello della Burocrazia. Sento spesso i miei amici più vecchi sospirare pensando ai loro tempi, quando tutto quanto veniva fatto a mano su una moltitudine di moduli, ed invidiare la moderna informatizzazione dei servizi pubblici.
Ecco. No.
L'informatizzazione è una gran cosa, non c'è dubbio (ne parlerò presto in un post, tenetevi pronti!), premesso però che ci sia un presupposto di base: che serva a sostituire la vecchia burocrazia cartacea. Nel nostro Paese, invece, l'informatizzazione si è semplicemente aggiunta al cartaceo, con il semplice risultato che tutto deve essere fatto due volte: dal vivo e on line.

Mi spiego meglio con un esempio. Il nostro corso di laurea prevede, come unica tassa obbligatoria per laurearsi, il pagamento di una marca da bollo da 14,62 euro. Questo pagamento può avvenire secondo due modalità: on line, attraverso il sito della vostra banca, oppure mediante bollettino bancario.
Ma, e qui viene il bello, non ha alcuna importanza quale modalità scegliate. Perché, in ogni caso, dopo aver pagato dovrete sempre prendere la ricevuta del vostro bollettino, oppure stampare quella del pagamento on line, e farvi tredici ore di coda agli sportelli dell'università per consegnargliela a mano. Come dire, se me lo dicevate prima vi portavo direttamente la marca da bollo e la finivamo lì.


I chiari vantaggi dell'informatica.
Il secondo gruppo di difficoltà, tuttavia, è molto più temibile e si chiama Famiglia. Sì, perché non importa se i vostri genitori siano analfabeti o direttori del CERN, originari di Bolzano o di Palermo, la laurea del figliolo è sempre un evento da festeggiare. Possibilmente in grande stile. Anzi, più grande. Più grande della laurea c'è solo il matrimonio e la nomina a Presidente degli Stati Uniti, suppongo, non avendo sinora provato nessuna delle due opzioni.

Mia madre incarna alla perfezione questo stereotipo. Per esempio, non appena ha saputo il giorno preciso della mia laurea, mi ha subito coinvolto nel turbine dell'organizzazione del ricevimento post-laurea, riuscendo ad includere nella lista degli invitati non solo tutti i parenti, vicini e lontani, non solo gli amici di famiglia, ma perfino persone che ho conosciuto solo per sentito dire e che non mi hanno mai visto in vita loro. E spacciando tutto per una mia idea, tra l'altro, il che ha già provocato diverse faide in famiglia.
Poi c'è la questione del regalo. Che per mia mamma dev'essere qualcosa di bello, signorile e duraturo. Come un orologio d'oro. Terrorizzata al pensiero di dovermi comprare una cassaforte apposta per un oggetto che non metterò mai in vita mia, ho provato a deviare il suo entusiasmo verso qualcosa di meno impegnativo. Al che, la mia mamma si è accorta del mio disagio ed ha generosamente proposto un oggetto di più largo utilizzo. Tipo un collier.


Se è proprio necessario, allora voglio questa!
Il bello di queste situazioni è che, nonostante sia abbastanza sicura che si tratti dei miei genitori, mi sembra di essere vissuta per quasi trent'anni in una realtà parallela e di essere capitata qui adesso per un puro caso. Perché chiunque mi conosca un minimo sa che le volte in cui sono uscita di casa indossando qualcosa di diverso da jeans e scarpe da ginnastica (eccetto quelle in cui sono stata costretta dalle circostanze, leggasi matrimoni) si possono contare sulle dita di una mano; che ho un'incapacità patologica di parlare di fronte a più di tre persone, quindi sono proprio la persona più adatta a tenere un ricevimento in mio onore; e che, fatta eccezione per due anelli e un orologio che mi ha donato mia cugina per la maggiore età, sono così insofferente nei confronti di qualsiasi tipo di gioiello da pianificare di perderlo di proposito.

Questo era il bello. Il brutto è che ho la vaga certezza che si tratti solo dell'inizio.

lunedì 11 febbraio 2013

Di quel mostro a sette teste chiamato "laurea"

Amatissimi funz,
sono viva. Lo so che non lo sembro, ma lo sono. Comincio anche a puzzare un po' di cadavere, per la verità... non tanto, solo come un vecchio capanno nel bosco con la carogna di una marmotta lasciata a putrefarsi sotto le assi del pavimento. Più o meno.

Cosa mi è successo? Beh, mi è successa la cosa peggiore che si può augurare ad uno studente universitario. Peggio di un esame al venerdì pomeriggio; peggio che essere messi tra la cattedra e il corridoio ad uno scritto; peggio delle tasse universitarie quando vostra madre comincia a sospettare che le abbiate mentito, quando giuravate che medicina dura nove anni ("Davvero, ma', è così per tutti!").
Mi è successo che sto finendo gli esami, e mi devo laureare.

Se posso esprimere un'opinione da principiante, la laurea me l'aspettavo un pochino diversa. Non che pensassi di scrivere la tesi con una stilografica in mezzo ad un campo di papaveri, con un branco di coniglietti che mi portavano i dati tra le loro buffe orecchie ed un gufo saggio che mi sussurrava le parole giuste all'orecchio; niente di tutto questo. Anche perché è marzo, fa un freddo cane e nevica.
Non mi aspettavo neanche la situazione che si è effettivamente verificata, però. Ho avuto più notti insonni, crisi isteriche, pianti e contrattempi in questo mese e mezzo scarso che in tutti i *ehm* sei anni di medicina precedenti. Per dire, in questo momento vorrei solo attaccarmi al tubo del riscaldamento e scollarmi a fine primavera, e invece sono seduta in vestaglia e pantaloni felpati davanti al computer, per raggiungere la scrivania devo scavalcare una pila di faldoni su cui sta in precario equilibrio una teiera ormai gelida, e non ho la più pallida idea di quando sia stata l'ultima volta in cui mi sono depilata.

"Cosa? Hanno cambiato di nuovo le date delle lauree?"
Se devo essere sincera, non è stata neanche tutta tutta tutta colpa mia. Beh, certo il coacervo di idiosincrasie che mi porto dietro non mi ha aiutato, questo no, ma anche gli altri ci hanno messo del loro. Mettete assieme un apparato universitario comatoso (per non dire di peggio), un branco di studenti sull'orlo di una crisi di nervi e una lista di regole severissime che nessuno rispetta, e avrete qualcosa di simile a quello che deve aver visto Paul Tibbets dal finestrino del suo aereo quella mattina del 1945.
Non sto qui a farvi l'elenco delle mie disgrazie, perché non frega niente a nessuno e perché poi il mio psichiatra si ingelosisce. Mi limiterò a farvi l'elenco dei miei disgraziati, ossia dei miei poveri compagni di sventura e delle reazioni di cui sono stata spettatrice in queste ultime sei settimane. Premetto che non do alcuna garanzia sul loro stato mentale, e declino qualunque responsabilità, tanto per chiarire.

Una mia compagna di tesi mi ha telefonato sette volte, all'inizio di gennaio, per avere delucidazioni e rassicurazioni sulla compilazione della domanda di laurea. Sette volte nella stessa giornata, intendo.

Un mio collega ha gentilmente fotografato l'uscita dei fogli con le date delle sessioni di laurea, a beneficio di tutti coloro che non potevano recarsi in segreteria per controllarle. Il giorno dopo, quando per caso sono passata lì davanti a controllare, i fogli erano già stati tutti corretti a penna dalla segretaria. Il caso ha suscitato una vibrante discussione, che non mi sento di riportare perché sono una signorina in età da marito.

Una mia cara amica ha avuto dei problemi con la redazione della tesi, per cui è stata costretta a posticipare la sua laurea. Si è però "dimenticata" di comunicarmelo, con il risultato che per settimane ho sostenuto una conversazione unidirezionale su ciò che avremmo fatto una volta laureate, a fine marzo, mentre lei sorrideva e cambiava discorso. Per la verità, questo solleva dei dubbi anche sulle mie capacità di ascoltatrice. Sigh.

Una ragazza che conosco appena mi ha chiesto il numero di cellulare, dopodiché ha passato due settimane a tartassarmi di sms e telefonate con domande esistenziali del tipo "Ma le date di laurea non sono ancora uscite? Ma non sono uscite per tutti o solo per me?". (No, non ho romanzato nulla, è una conversazione realmente avvenuta.)


Insomma, sono alla frutta. Sogno il venerdì tutta la settimana, salvo poi addormentarmi sul divano con la bavetta mentre Crozza mi parla del suo mondo da shogno. Non ricordo più la voce di alcuni miei amici (la faccia sì, ma solo perché la vedo spesso su Facebook). Ogni volta che il cane abbaia un po' più forte, mi si seccano le coronarie.

E, in tutto questo, lunedì e martedì prossimo ho gli ultimi due esami. Ho calcolato di avere il tempo di studiarne uno solo, perciò pregate fortissimo per me. Anche perché oggi è il primo giorno di studio e sono già le cinque. Per dire.

venerdì 14 dicembre 2012

Apocalypse (s)now

Stanotte ha nevicato.
Beh, grazie tante, mi direte voi, è dicembre. Anche se, in realtà, la zona dove vivo io è nota per avere un clima particolarmente mite, e infatti attira turisti da tutte le regioni limitrofe durante buona parte dell'anno. I ragazzini cresciuti qui, per dire, non hanno mai avuto la possibilità di fare a palle di neve con i loro amichetti, a meno che i genitori non li portassero a sciare. Ma sto divagando.

Dicevo, stanotte ha nevicato. Siccome ho la fortuna di vivere a due passi dall'ospedale, stamattina mi sono fatta cogliere da uno scrupolo di coscienza pensando ai miei colleghi che vivono lontani, e ho pensato di sfidare la bufera per andare in reparto a dare una mano.
Questo è stato il mio primo errore.

Ora, in qualunque posto civile, la vertiginosa quota di 10 centimetri di neve non basta a paralizzare la città (a meno che non cadano, non so, a Tunisi, o nel deserto del Nevada). Come vi ho detto, non sono un'esperta in materia, ma immagino che dopo la nevicata passino gli spazzaneve, gli spargisale, anche solo un omino con una pala, che cerchi di ripristinare una circolazione pressoché normale quantomeno per i servizi essenziali, come l'ospedale.
Qui da me non funziona così. Il nostro sindaco, di chiare origini spartane, crede fermamente nella necessità di temprare i suoi concittadini contro le avversità del destino, forse per prepararci all'imminente catastrofe annunciata dai Maya. Noi tutti gli siamo enormemente grati, e lo esprimiamo fustigandoci sulla pubblica piazza ad ogni elezione.

Arrivare da casa mia all'ospedale è davvero molto semplice: bisogna fare una rampa di scale, poi un lungo rettilineo, e infine una piccola salita fino al mio padiglione. Normalmente, è un percorso che non richiede più di 5 minuti, 10 compresa la sosta al bar per il cappuccino.
Stamattina, invece, mi sembrava di essere finita sul set di 2012. Per raggiungere l'ospedale ho dovuto scalare una cascata di ghiaccio che nulla aveva da invidiare all'iceberg che ha fritto il Titanic; poi, giunta in cima, ho dovuto guadare un Mekong di fango appiccicaticcio e gelato; infine, per gli ultimi metri, non ho avuto altra scelta che trascinarmi mestamente in mezzo alla neve fresca fino alla porta del reparto. Il tutto con le Converse.

Le scale sopra casa mia.
Quello che non sapevo, ovviamente, è che i miei guai erano appena iniziati. Infatti, come avevo già appurato in occasioni precedenti (vi ricordate 'o terremoto?), le avversità naturali sembrano avere un modo tutto loro di mettere i miei nonnetti particolarmente di buonumore. E stamattina non ha fatto eccezione.

Immaginate la scena. Ad un angolo del ring abbiamo l'Attrice, una bella signora dai lunghi capelli color ferro, con un passato in teatro, delle unghie da velociraptor e la nostalgia del marito (che per comodità chiameremo Luigi). All'angolo opposto, invece, abbiamo la Strega, una vecchietta piccola ma coriacea, con i capelli biondi e l'occhietto vitreo da Jack lo Squartatore. A separarle, solo la sottile paratia che divide le due camere adiacenti.

Voglio pensare che, a modo loro, abbiano solo cercato di renderci più piacevole la giornata. Non si spiega, altrimenti, il duetto di urla belluine che hanno messo in piedi alle otto del mattino e che è continuato almeno fino alle due, quando ho faticosamente guadagnato l'uscita del padiglione. Un coro di "Luigi!", "Aiuto!", "Soffoco!", "Basta!", che si chetava solo quando qualcuno di noi, più per esasperazione che per pietà, entrava nella loro stanza a consolarle, e che riprendeva immediatamente appena ricominciavamo il giro visite. Senza contare i parenti degli altri pazienti, che facevano capolino dalle rispettive stanze con lo sguardo del giudice Morton quando apre il bidone della salamoia.

Cucù!
Insomma, in una maniera o nell'altra siamo riusciti ad arrivare alla fine del giro. Ho atteso il tempo necessario per sollevare un minimo di lavoro dalle spalle dei miei colleghi, poi mi sono lanciata fuori dal reparto con la leggiadria di un leprotto invernale, desiderosa solo di mettere più chilometri possibili tra me e il concerto di Capodanno che non accennava a calmarsi. Col risultato che mi ci è voluto qualche tempo per assimilare quello che mi sono trovata davanti.

Il piazzale davanti all'ospedale era un'immensa, unica, brillante lastra di ghiaccio.

Ho fatto il resto della strada con uno stile che farebbe invidia a Carolina Kostner. Del resto, come giustamente mi hanno fatto notare, quale posto migliore per spezzarsi un femore che l'ospedale?

martedì 13 novembre 2012

La Signorina Cuorinfranti

Per chi mi conosce, non è una novità il fatto che io sia da lungo tempo sentimentalmente impegnata. Per la precisione, sto con la stessa persona da ormai quasi nove lunghi anni, il che dimostra, se non altro, che questa persona dovrebbe essere insignita del Nobel per la Pace.
Non ne ho mai fatto mistero con nessuno, perciò mi è capitato abbastanza raramente di trovarmi in situazioni sentimentalmente appiccicose; anche se, diciamolo, la piaga dei gigioni imperversa orribilmente, e non c'è nulla che noi povere ragazze possiamo fare al riguardo, se non tacere e soffrire (e sferrare qualche gomitata ben data, se necessario).

Soprattutto, e su questo sono seria, non mi era mai capitato di vedere qualcuno cercare di appiopparmi un marito. Anzi, se devo dire la verità, la quasi totalità di critiche che ho ricevuto in questi nove anni (abbastanza poche, per la verità) ha sempre, invariabilmente riguardato il fatto che mi ero fidanzata troppo giovane e che mi ero goduta poco la vita, a detta di questi ficcanaso impenitenti.
Perciò, come potete immaginare, ero totalmente impreparata nei confronti della Signorina Cuorinfranti.

La Signorina Cuorinfranti, in realtà, non è signorina: è una bella signora un po' avanti con gli anni, con tanto di figli e nipoti in abbondanza. È davvero una cara persona, ma quando vuole ha anche un terribile caratteraccio, poiché, come molte persone della sua età, è abituata a fare solo ed esclusivamente quello che vuole lei (ve la ricordate la Monella?).
Nel caso specifico, l'oggetto del contendere era il fatto che la cara signora non ne vuole proprio sapere di restare in ospedale, e vuole tornare assolutamente a casa sua. L'argomento costituisce il 90% delle nostre conversazioni in sua presenza, e potrete immaginare la sua agitazione quando sia noi medici (lasciatemela passare, dai) che i suoi figli le ripetiamo che è necessario che rimanga ricoverata ancora per un pochino, così, per sicurezza. La sua cocciutaggine è davvero stancante, perciò non ci lasciamo scappare un'occasione per cambiare argomento, con risultati talvolta poco entusiasmanti. Come vi vado a narrare.

Siete pregati di fischiettare la canzone dei Beatles, grazie.
Scena: corridoio dell'ospedale, mattina presto. La Signorina Cuorinfranti è seduta sulla carrozzella, mentre io sto cercando di infilarle la vestaglia senza che mi rimanga in mano il suo braccio. Atmosfera quieta.

La Signorina Cuorinfranti nota la fede al mio dito. Non è la prima volta che qualcuno la vede e pensa che io sia sposata, il che è comprensibile, e tutte le volte mi tocca spiegare che sono ancora nubile e che si tratta solo di un caro ricordo della mia nonna. La signora non fa eccezione.

"Sei sposata?"
"No, cara" rispondo, e sorrido. Stavolta, però, non mi dà il tempo di propinarle il solito pistolotto.
"Fidanzata?"
"Sì, sono fidanzata." Fin qui tutto bene. Mai, però, mi sarei aspettata il seguito.

La Signorina Cuorinfranti mi guarda dall'alto in basso, come se stesse parlando con una ritardata, e sbotta: "E sposati, allora!"
Attimo di scompenso. All'improvviso, mi scorrono davanti agli occhi immagini di abiti bianchi, spiegazioni traballanti e frammenti di una giovinezza perduta. E neanche mi piace, il bianco. Mi riprendo dopo poco, e cerco di buttarla in ridere.
"Ma se non ho una lira!"
La signora ha ormai perso tutte le speranze di parlare con una persona normale, è evidente. "E vai a vivere con tua mamma!"
"Ma io vivo già con mia mamma..." provo a ribattere, ma è inutile.
"E allora sposati! Cosa stai sempre fidanzata? Quanto tempo è che sei fidanzata?"
"Otto anni..." pigolo piano, contando sulla sordità della terza età. Niente da fare.
"E cosa stai aspettando?! Sposati, che mi faccio fare un bel vestito estivo e vengo anche io! La borsa ce l'ho già."

Insomma, in una mattinata ho già rimediato la decisione, la data e pure un'invitata. I soldi, però, non sono ancora pervenuti. Andrò a giocare al Lotto... tanto, se riesco a rimediare un libro della Smorfia, i numeri da cercare per un terno secco già ce li ho: il Ficcanaso, la Zitella e l'Orologio Biologico.

venerdì 19 ottobre 2012

Nonni vs. Bimbi

La mia decisione di occuparmi dei nonnetti, devo dire la verità, ha causato molto scompiglio nella mia vita. Non dipendente da me, ma dai miei amici e parenti.
Sembra infatti che quasi nessuno riesca a capire la mia scelta. Siccome ho degli amici meravigliosi, la maggior parte di loro si è fatta gli affari propri ed ha tenuto per sé quello che puó aver pensato della mia decisione (ammesso che ne abbiano pensato qualcosa), ma, ció nonostante, la quantità di amici e parenti che ha manifestato le sue perplessità è stata decisamente alta.


Le critiche sono state le piú varie. Sono passata dall'amico che mi ha rimproverato di non aver scelto chirurgia plastica per rifargli il naso gratis (che peró esula dagli scopi di questo post), a quelli che hanno espresso, in maniera piú o meno marcata, incredulità, scetticismo e, talvolta, perfino disgusto.

Questo mi ha dato modo di riflettere su quale potesse essere il motivo di tanto accanimento per gli anziani (considerando che alcuni dei miei detrattori non sono esattamente dei giovanotti), e, soprattutto, di immaginare le loro reazioni se avessi annunciato di voler fare pediatria. Ho l'impressione, chissà perché, che le critiche sarebbero state molto inferiori.
Perció, in questo post voglio mettere a confronto le due categorie, i Nonni e i Bimbi, come se si trattasse di un quiz televisivo, e vedere quale delle due categorie dimostrerà di avere piú meriti. Tralasceró gli aspetti piú disgustosi dell'assistenza agli uni e agli altri, che comunque si equivalgono (come mi pare di avervi già ricordato in qualche altro post), e mi focalizzeró solo sugli evidenti pregi e difetti delle due categorie.
Pronti?



  • I nonni hanno sempre pronta una caramella, quando li andate a trovare (per i più fortunati, anche dei biscotti o una torta). I bambini, al massimo, vi stampano sulla camicetta due manate di cioccolata e un bacio moccoloso. Che, tante grazie, ma anche no. 1 punto ai Nonni
  • I nonni hanno sempre un sacco di storie da raccontare, sugli argomenti più svariati: dalle feste di paese di quando avevano la vostra età, al soldato che è saltato in aria su una mina tedesca proprio accanto a loro nel '43. Un bimbo, d'altro canto, può passare ore ed ore a lagnarsi di come Marco gli ha appiccicato la cicca sui capelli oggi a scuola. Non c'è bisogno di dirlo: 1 punto ai Nonni
  • Entrambe le categorie, bisogna ammetterlo, sanno essere abbastanza logorroiche quando trovano un argomento che li aggrada. Parità
  • Sempre sul discorso dei racconti, un nonno può insegnarvi veramente un sacco di cose: da come si fa la pastafrolla a come si smacchia il sangue dai vestiti, da come fabbricare un comodino a come eliminare quel fastidioso fischio dei freni. La cosa più utile che vi può insegnare un bambino, invece, è come raggiungere il centro del vostro Ki per evitare di mettervi a urlare alla vista del vostro povero divano tutto sporco di fango. 1 punto ai Nonni
  • Avere un nonno che si appassiona alla tecnologia, ahimé, può essere la peggiore delle punizioni. È più facile insegnare ad un gorilla la teoria della relatività, che ad un nonno come si cambia la cartuccia della stampante. In tal caso, seguite il mio consiglio: mandateci vostro nipote di cinque anni, che sa già programmare in remoto il vostro computer di casa usando l'iPhone, e toglietevi il pensiero. 1 punto ai Bimbi
  • Se appartenete, come me, alla sfortunata "Generazione Mille Euro", vostra nonna rivelerà insospettate qualità da Bancomat, procurando con discrezione di infilarvi 20-50 euro in tasca tutte le volte che andate a trovarla. Soldi che vi verranno prontamente sfilati da vostro figlio, per andare a comprarsi Halo 4. 1 punto ai Nonni
  • Crescere un figlio è forse il compito più alienante nella vita di un uomo, ma l'aspettativa che un giorno questo marmocchio si prenderà cura di voi, quando sarete vecchi e rincitrulliti, è abbastanza rasserenante. I nonni, ahimé, sono già passati dall'altra parte della barricata. 1 punto ai Bimbi
  • Un bambino è una specie di enorme orecchio di spugna, pronto a captare qualunque insegnamento di vita, esperienza passata o fede calcistica vogliate trasmettergli. I nonni, nella stragrande maggioranza dei casi, vi vedono ancora come il bambino che foste e tendono ad essere scettici sul fatto che possiate insegnargli qualcosa, sia pure come si programma il videoregistratore. 1 punto ai Bimbi
  • Quando vi trovate in rotta col resto del mondo, mezzi morti di fame alle tre del pomeriggio, o di rientro da una nottata delirante e senza le chiavi di casa, la porta dei nonni è sempre aperta. Quando avete un bambino, tutti questi problemi non sono più affar vostro. 1 punto ai Nonni
  • A proposito di fame: vostra nonna non accetterà mai che abbiate già finito di mangiare. Mai. Per lei, potete pesare 200 kg ed avere appena sbranato un montone con tanto di corna, che ci sarà sempre spazio per un'ultima fetta di crostata. La buona notizia è che potrete smaltire tutti questi grassi extra correndo dietro a vostro figlio ai giardini pubblici. 1 punto ai Nonni
  • Il nonno è quell'angelo custode che vi tiene il pargolo quando siete al lavoro, quando andate a fare la coda all'Inps, e persino quando vi concedete un pomeriggio alle terme per ricordare che faccia ha vostro marito. E non aggiungo altro. 1 punto ai Nonni
  • Il nonno è quell'essere che, quando comincia a perdere colpi, brontola e fa i capricci e ha bisogno di voi ventiquatt'ore al giorno, proprio come vostro figlio piccolo. La differenza è che, con il nonno, avete comunque tanti bei ricordi passati da far fruttare, anche quando la situazione si fa drammatica. Ed il pensiero che, purtroppo, tra non molto avrà tolto il disturbo. (Questa è solo una considerazione personale, ed anche abbastanza triste, pertanto non fa punteggio.)
Totale: Nonni 7 - Bimbi 3

Adesso devo solo farlo capire a mia nonna.



(P.S.: mi rendo conto che questa lista è breve e parziale, ma riflette solo la mia opinione sull'argomento. Se avete altre idee o esperienze personali per far prendere la bilancia dall'una o dall'altra parte, fatemelo sapere in un commento qua sotto o sulla nostra pagina Facebook. Sarò lieta di aggiungere le vostre opinioni alla lista!)